Di “gioco delle parti” si può parlare, specie in esecuzioni in cui le tattiche individuali lavorino in libertà ma percepibilmente modellate da un “concertato” (appropriato aggettivo) lavoro di regia: prima uscita di un progetto di maggiori future estensioni, fondate su «un personale approccio alla composizione, sviluppato durante molti anni e molte produzioni», Shibui è opera dai caratteri enunciati già dalle sue prime articolazioni in termini piuttosto definiti. Il lavoro procede organicamente nei suoi tratti stilistici aperti ma coerentemente conformati verso ed entro gli stilemi praticabili da una dinamizzata, piccola orchestra jazz, e la “Massa Critica” ad otto parti è falange disciplinata e vivida cui non difetta il senso di cospirazione collettiva e le vivacità di giochi di ruolo e d’interscambio. Garanzia di standard almeno sostanziale, la Leo Records forte di Anthony Braxton, Art Ensemble of Chicago, Sun Ra, Don Moye (ma anche Marilyn Crispell, Han Bennink, Joe Morris etc) torna ad ospitare e produrre un progetto made in Italy caratterizzato da un senso della vivace coreografia orchestrale. Shibui è opera polifonica e corale, percorsa e conformata dal vivido colore degli interventi del violino, dall’avvicendamento puntuale delle voci della brass-section, dalle pulsazioni ritmiche, dalle scansioni della batteria agilmente duttile nella riproposizione di climi anche vintage; il gioco espressivo che giunge ad isolare anche protratti “solo” (di acre suggestione il clarino turco) e ad incorniciare sommesse e concentrate coralità, licenzia sconfinamenti verso climi disimpegnati e relativamente eterogenei giungendo a toccare anche un free “temperato” e comunque funzionale alla strategia mutaforma del progetto, che molto gioca in agilità individuali ma con primaria attenzione verso la tenuta d’insieme. In protratte ed equamente ripartite parti solistiche, tra scrittura e improvvisazione, che le pongono in alterno risalto, le voci dei vari partecipanti – mantenendo elevato l’individuale e comune apporto contributivo, gli accenti, l’attenzione alla tenuta dei passaggi e alle progressioni orchestrali – lavorano di partecipazione e supporto alla costruzione della macchina sonora del regista-compositore aperto, appunto, anzi molto incline a mutamenti di forma e clima, sondando le doti d’eloquenza dei propri strumenti, operando anche e piuttosto volentieri di studiata teatralità nel gioco della sorpresa ma riportando il tutto ad una generale disciplina. Si potrà obiettare come gran parte della dimensione espressiva e formale di Shibui si origini e viva dentro la scrittura, come particolarmente evocabile da una performance di morfologia orchestrale, ad impatto emotivo d’insieme apparentemente controllato, ma il generale clima di freschezza bilancia le riserve sul comunque colorito e vivido post-mainstream di Fazio & compagnia sonante che, certamente nella grande scia revisionista di Gil Evans, condivide una concezione “organica” della forma jazz le cui libertà appaiono (come peraltro enunciato strutturalmente) viventi in eminente parte sulla dimensione della pagina scritta, aspetto fondativo che, pure, non potrà sminuire nel lavoro di Fazio l’indubbia cura investita nell’edificazione ritmico-melodica di Shibui.