Torna dopo qualche anno di silenzio Enrico Fazio, già bassista dell’Art Studio e da venticinque anni validissimo leader in proprio. Torna, e fa un’altra volta centro, proprio come nel 1988 quando, con Mirabilia, evidenziò doti (compositivo-aggregative, soprattutto) che la lunga militanza nello storico gruppo torinese (nel quale era del resto entrato appena diciottenne) aveva in qualche modo celato (o forse accompagnato e forgiato).

Come allora – anche se per forza di cose senza lo stesso fulminante senso della scoperta – la musica di Fazio colpisce anzitutto per la sua solidità: concettuale, di scrittura ed esecutiva, di interazione fra parti corali e sortite solistiche. A tratti viene in mente Mingus, ma anche certe orchestre europee (perché il tiro dell’ottetto è indiscutibilmente orchestrale), soprattutto inglesi, con un occhio qua e là più mitteleuropeo.

Sul versante timbrico e per il ruolo giocato nelle improvvisazioni, preziosissima è la presenza del violino, che si distingue in svariati brani (“Tempus fugit,” “Pianoless,” “Shibui,” “Serendipity”) ed è, globalmente, voce-chiave della tavolozza messa a punto da Fazio. Ci sono poi fedelissimi della prima ora, sempre brillanti (da Alberto Mandarini, che proprio nei gruppi del bassista torinese iniziò a farsi conoscere, a Francesco Aroni Vigone, anche lui presente fin dai tempi di Mirabilia, allo stesso Fiorenzo Sordini, che era poi il batterista dell’Art Studio), o acquisizioni più recenti (su tutti Gianpiero Malfatto).

Grande rotondità e contemporanea, puntuale valorizzazione delle singole voci s’impongono fin dall’iniziale “Tempus fugit,” con gli assoli che mostrano per tutto il lavoro un’assoluta adesione stilistico-emotiva alla struttura (all’estetica) globale, dalla quale vengono spesso – per così dire – “fasciati”. C’è un preciso retrogusto gasliniano in “Serial Player” (che già il titolo…), tra le costruzioni più ingegnose del lotto, mentre è forse il successivo “Serendipity,” tornando a quanto detto poc’anzi, l’episodio in cui più palpabili appaiono le reminiscenze mingusiane.

Entrare oltre nei meandri dei singoli brani sarebbe in fondo sterile. Resta l’immagine di un album di grande spessore, uno di quei lavori che possono mettere d’accordo l’avanguardista e chi non sa rinunciare ai più saldi valori del jazz in quanto tale. Il che, come s’intuirà facilmente, non è cosa da poco.
Valutazione: 4 stelle

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